La nuova maturità: il modello aziendalista della scuola europea
L’esame di Stato conclusivo del secondo ciclo, quello che tutti continuiamo a chiamare maturità, è cambiato. Dopo la riforma Berlinguer che ne aveva completamente trasformato le caratteristiche all’inizio degli anni 2000, questa è la più importante modifica degli ultimi anni, se non consideriamo la breve parentesi delle commissioni completamente interne, volute dalla Moratti, che ben poco successo ebbero, avendo significato un completo asservimento dell’esame alla politica delle singole scuole e alla logica del marketing, come era peraltro facile immaginare (molti voti alti possono significare più iscritti, questa era la logica che si era imposta, con le conseguenze che tutti possiamo immaginare).
La trasformazione dell’esame di Stato nasce dalla logica della L. 107/15, la cosiddetta Buona Scuola, con la sua “valorizzazione” dei percorsi di Alternanza Scuola Lavoro, delle competenze trasversali e di quelle di cittadinanza: non a caso è sancita da una delle leggi delega della 107 (D.Lgs 62/2017), cui i docenti, dopo la bruciante sconfitta della lotta contro questa legge, hanno prestato forse troppo poca attenzione. È in quella legge che si mettono le basi delle trasformazioni cui assistiamo in questi mesi. È in quella legge che si dichiara la centralità delle competenze di cittadinanza e di quelle trasversali, si ribadisce la centralità dell’INVALSI le cui certificazioni, seppur da non considerarsi per l’esito finale dell’esame, finiranno in una certificazione di competenze, figlia di una logica che sta informando tutto il ciclo di istruzione e che non ci stupiremmo nei prossimi anni divenisse centrale. La didattica per competenze sta infatti occupando molto spazio nei cicli inferiori di istruzione e si sta pericolosamente affiancando alla valutazione degli apprendimenti. La storia degli ultimi 30 anni di riforme ci insegna che i grandi cambiamenti ci vengono proposti attraverso progressivi avvicinamenti, perché le modificazioni radicali, molto più individuabili, hanno scatenato e scatenerebbero la giusta reazione dei docenti e degli studenti. Ci aspettiamo quindi che il passo successivo sarà il tentativo di sostituire la valutazione di quanto gli studenti apprendono, con la valutazione delle competenze acquisite. Questo è secondo noi l’esito che il legislatore si sta proponendo ed è un esito estremamente pericoloso, sia perché il costrutto di competenza resta un costrutto vago, su cui pedagogisti e psicologi non sono d’accordo, sia perché è un concetto mutuato dal mondo imprenditoriale e dalla logica della selezione del personale, sia perché la valorizzazione delle competenze si traduce nei fatti in una svalutazione dei saperi, sia perché la logica delle competenze è quella di una funzionalità della scuola alle esigenze del mercato delle lavoro, su cui ci siamo più volte espressi e che riteniamo un pericolosissimo processo di asservimento del sistema educativo alle logiche del profitto, processo voluto e spinto fortemente dall’Unione Europea che vede nei sistemi formativi ed educativi dei paesi membri uno strumento per la formazione di quella forza lavoro flessibile, spostabile e sfruttabile, su cui vuol far leva per affrontare la profonda crisi economica in cui si dibatte la nostra società. In questo senso è illuminante la Raccomandazione de Consiglio Europeo del 22 maggio del 2018 sulle competenze chiave per l’apprendimento permanente, che pone al centro del suo ragionamento la competenza imprenditoriale, ormai centrale rispetto alle foglie di fico della creatività e dello spirito di iniziativa.
In questo quadro generale, che ci sembrava necessario richiamare, gli effetti concreti sull’esame conclusivo del secondo ciclo di istruzione, sono molti: da un lato è scomparsa la Terza Prova e nessuno può, in effetti, dolersene; chi insegna sa bene che si riduceva ad un quizzone nozionistico, dove venivano riproposte anno dopo anno le stesse domande, che non testavano se non l’aver mandato a memoria una serie di stereotipi didattico-disciplinari; dall’altro si è voluto cambiare anche la Prima Prova, con la sostituzione del saggio breve e dell’articolo con un testo argomentativo, la ricomparsa del tema di attualità, la schematizzazione sempre più spinta dell’analisi del testo, ma anche la cosiddetta scomparsa del tema di storia, che però rimane nella sottocategoria del testo argomentativo. Su questo punto ci limitiamo a rilevare che l’insegnamento della storia e delle discipline umanistiche in generale si è progressivamente ipersemplificato ed è stato più volte svalutato negli ultimi decenni (ci limitiamo a ricordare la sciagurata riforma dei professionali, altro frutto avvelenato della Buona Scuola, che taglia ulteriormente le ore di lettere e storia: d’altronde, se sei destinato a svolgere mansioni meramente esecutive, perché mai dovresti avere gli elementi per pensare?). Questo processo a nostro parere non può che essere collegato a quell’evidente intenzione di asservire l’istruzione alle esigenze delle aziende, facendole perdere quel ruolo di costruzione della persona e della personalità per cui è nata. In generale riteniamo che la questione della Prima Prova dovrebbe essere inserita in una riflessione più ampia: perché è importante imparare a scrivere? Che valenza ha la capacità di comunicare le proprie posizioni, idee, conoscenze, intenzioni per iscritto? In che modo essa deve collegarsi con quanto si è imparato a scuola? Può questa capacità dipendere solo da una logica utilitaristica di cosa ti verrà richiesto sul luogo di lavoro? Evidentemente, da docenti e da sindacalisti, noi crediamo di no e che la capacità di comunicare per iscritto abbia invece molto a che fare con che tipo di capacità di critica e riflessione si sia riusciti a sviluppare negli anni dell’apprendimento.
Le ultime novità emerse in questi giorni sono il cambiamento di molte Seconde Prove (le prove connesse all’indirizzo di studi) e del Colloquio orale. In molti indirizzi la Seconda Prova sarà mista (gli esempi più noti: latino e greco al liceo classico e matematica e fisica allo scientifico). Ricordiamo che sarà mista anche la Seconda Prova di alcuni indirizzi professionali, perché il Ministero è interclassista quando si tratta di testare le capacità degli studenti, salvo avere impostato il sistema di istruzione nazionale in modo profondamente classista ed aver svuotato di contenuti l’istruzione professionale, mirando a farne una sorta di lungo avviamento al lavoro: come posso indebolire la formazione di questi studenti e poi chiedergli di gestire in scioltezza due discipline e di essere in grado di produrre un elaborato che le colleghi tra loro in modo significativo? Certo che gli studenti devono poter arrivare tutti allo stesso livello di capacità di elaborazione, ma perché possano farlo lo Stato ha il dovere di fornire loro le stesse opportunità, come da dettato Costituzionale, cosa che sappiamo non avviene affatto, essendo la scuola italiana classista e segregante (i meno ricchi, i migranti, i più deboli in generale riempiono le classi dei professionali, non certo dei licei classici e scientifici di questo paese). Inoltre il colloquio dovrà partire dalla scelta alla cieca di un argomento trasversale e/o interdisciplinare, secondo quanto indicato nel documento del 15 maggio. In molti si sono stupiti e hanno preso sul ridere questa novità, che però è, come la Seconda Prova scritta mista, figlia di una logica pericolosa e nello stesso solco della didattica per competenze. Non a caso pare che dietro questa modifica vi sia L’ANP, l’Associazione Nazionale Presidi, tra le maggiori fautrici della trasformazione in senso aziendalista della scuola italiana. Crediamo che questo provvedimento sia figlio di un malinteso concetto di interdisciplinarietà, asservito all’idea base della didattica per competenze, per cui i saperi sono strumenti da utilizzare in situazione, così da essere pronti ad ogni compito il mondo del lavoro ci metterà di fronte: l’obiettivo è una forza lavoro poco formata, con alcune competenze di base, che sappia rispondere ad ogni esigenza del mercato senza porsi domande, senza pensare criticamente. Certo che saper mettere i saperi in relazione è importante, certo che costruire una propria visione di fenomeni che non sia a compartimenti stagni (ad esempio la formazione di una certa forma di Stato, l’affermarsi di una certa corrente culturale, la trasformazione globale in cui siamo immersi, i collegamenti tra gli aspetti fisici, biologici e chimici di certi fenomeni naturali, per fare degli esempi banali) è essenziale, ma questo non ha nulla a che vedere con il forzare collegamenti improbabili o peggio preconfezionati (perché questo accadrà), stabiliti dai docenti e dalle pratiche delle singole scuole. Questa ennesima trasformazione subita dalla scuola italiana, rischia ancora una volta di tradursi in un abbassamento del livello dell’insegnamento, di diluire ancora di più quei saperi che devono essere in relazione dialettica con la pratica e al cui incremento noi dovremmo puntare come docenti. Perché la soluzione non può essere né il nozionismo, né il sapere asservito alle esigenze di chi detiene il potere economico. Il percorso di apprendimento deve invece essere quel percorso di crescita personale e collettiva, che mira a costruire un essere umano, una persona, un cittadino (chiamatelo come volete) consapevole e critico, in grado di pensare e di trasformare la realtà data.