Per Tullio De Mauro
La scomparsa di Tullio De Mauro non può non interessare il mondo della Scuola e quella parte del corpo docente che vuole guardare al di là del proprio naso. I suoi libri sono e saranno un riferimento alto (perché non stiamo parlando di un accademico qualunque, ma di uno dei grandi studiosi del secondo Novecento) per chiunque voglia ragionare seriamente sull'educazione linguistica delle giovani generazioni, sulla civiltà di un paese, sulla sua cultura, sull'amore per la lingua, la storia e la cultura italiana – ovviamente non in chiave nazionalistica o identitaria, ma di coscienza di una tradizione da non disperdere.
E non può non interessare un sindacato come il nostro, che cerca di coniugare la difesa della condizione dei lavoratori e la qualità dei progetti formativi, il senso sociale dell'educazione e la negazione ormai sempre più palese di una funzione di avanzamento collettivo degli istituti ad esso deputati.
Altri parleranno del De Mauro linguista, glottologo, filosofo del linguaggio; altri ripercorreranno la sua precoce (aveva 31 anni) importantissima opera, Storia Linguistica dell’Italia Unita, dove per primo e in modo più analitico e critico ha saputo raccontare la storia dell’unificazione linguistica dell’Italia e dunque dell’unificazione del paese stesso, mettendone in rilievo gli aspetti positivi, come i momenti e le vicende anche violente che hanno caratterizzato questa unificazione, gli spaventosi squilibri territoriali, i molteplici fattori che l'hanno prodotta (dalla scuola alla televisione, senza mettere tutto sullo stesso piano, ma anche senza lo snobismo di chi crede che la cultura si produca solo a livello alto).
A noi sembra utile ricordare che di scuola si è sempre occupato, così come di analfabetismo ed alfabetizzazione. Ancora negli ultimi anni ha scritto più di un intervento, sia accademico che giornalistico, sul grave gap esistente tra la padronanza orale della lingua nazionale da parte della maggioranza degli italiani e la loro capacità di decodifica e produzione nella lingua scritta, assolutamente insufficiente. Più volte, statistiche e ricerche internazionali alla mano, ha mostrato come in Italia sia diffuso l’analfabetismo funzionale, sottolineando la gravità di una situazione come questa ed indicando nell’alfabetizzazione delle giovani generazioni e nella loro formazione una delle strade maestre per far sì che la maggioranza degli italiani possa “utilizzare” e comprendere la propria lingua in modo adeguato anche nella sua espressione più colta ed elaborata, quella scritta. La sua riflessione di accademico si è quindi sempre indirizzata verso il riconoscimento dell’importanza e della ricchezza della varietà linguistica e storica di questo paese e verso la necessità che lo Stato riconoscesse, sostenesse e rafforzasse l’azione della scuola della Repubblica, allo scopo di rendere il più possibili omogenee le opportunità linguistiche, culturali e dunque, in ultima analisi, di vita dei cittadini di questo paese.
Sempre in questa direzione, negli ultimi anni, ha più volte criticato le (pseudo)riforme che si sono susseguite, sia quelle della Scuola che dell’Università. E, se sulla recente riforma dell’Università aveva avuto modo di dichiarare che era meglio il niente della riforma che si stava operando, nonostante il grande bisogno di rinnovamento delle Università italiane, sulla riforma della scuola del Governo Renzi, la cosiddetta Buona Scuola, si era espresso in termini di “salto nel vuoto”, definendo la riforma vaga e poco attenta ai modi e ai tempi di realizzazione di quel cambiamento che pure da sempre sosteneva come essenziale, soprattutto per la scuola Secondaria Superiore che lamentava ferma alla Riforma Gentile. Era stato critico sia sul largo potere che la riforma concede ai Dirigenti Scolastici sia sul sistema di valutazione dei docenti e non aveva risparmiato parole dure per “la classe politica, imprenditoriale” che, a suo dire “ha sempre nutrito una diffidenza verso l’istruzione”. “Queste classi” aveva avuto modo di dichiarare” non amano la crescita del livello d’istruzione.”
Va però anche sottolineato che le sue parole non hanno sempre corrisposto al suo operato politico. Egli, come ricordano oggi molti giornali, è stato infatti anche Ministro dell’Istruzione del governo Amato, tra il 2000 e il 2001, e in quella veste ha tentato una riforma dei cicli con il taglio di un anno della Scuola Media Inferiore, per portare il percorso di studi da 8 a 7 gli anni di scuola complessivi, oltreché il passaggio dal rigido “programma” al “curricolo”, nel tentativo di far ricadere buona parte delle scelte di quanto si deve studiare a scuola sulle singole scuole e sui docenti, eliminando le indicazioni provenienti dal Ministero, a favore dell’elaborazione di percorsi di studi commisurati “alle realtà degli allievi e delle singole realtà scolastiche e ambientali”. La sua riforma, come molte altre, non vide la luce, perché il governo cambiò prima che fosse messa in pratica, ma, come appare chiaro anche solo da queste brevi righe, si poneva in perfetta continuità con la Riforma Berlinguer e con tutti i tentativi più o meno riusciti di modifica della Scuola Pubblica Statale che si sono susseguiti nei 15 anni successivi. La direzione è quella stabilita nel 1995 dal Libro Bianco dell’Istruzione, quella che ha affiancato e incoraggiato il percorso di trasformazione della società europea in società della conoscenza. Quell’idea di sistema di istruzione e formazione che a partire dagli assunti del liberismo capitalista sostituisce la società del welfare e della scuola di tutti e per tutti, con una società di saperi tecnici volti ad formare soggetti il più e il meglio possibile al servizio del mercato. Quella visione dell’istruzione che mira a formare l’attitudine all’occupazione, ovvero l’attitudine ad essere a piena e totale disposizione del mercato e di chi lo governa. Quella visione in cui la scuola forma buoni tecnici, ma non persone critiche e pienamente pensanti. Quella strategia che il Consiglio Europeo adottò pienamente a Lisbona nel 2000: “diventare l'economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo” e che viene confermata negli obiettivi di Europa 2020. Una visione della società e della scuola che mira a preparare i giovani al mercato e a formare in modo continuo i lavoratori alla cultura di impresa, una cultura di impresa che informa ogni aspetto della vita, senza che i soggetti investiti da questa cultura se ne rendano conto. E non è un caso che De Mauro sia sempre stato un grande sostenitore della formazione continua.
Viene dunque naturale domandarsi come uno studioso acuto e profondo come Tullio De Mauro non abbia voluto o potuto vedere con chiarezza come la sua azione si inserisse in un quadro che tanto lontano ci avrebbe portato e ci sta, in effetti, portando dalla visione di cultura, di formazione, di conoscenza, di comunicazione che lui stesso ha difeso con il suo lavoro accademico. Lui, come molti altri intellettuali della sua generazione, non è stato in grado di affrancarsi dal modello imposto da questa società capitalista e neoliberista e si è reso compartecipe di trasformazioni – volute prevalentemente in ambienti di centro-sinistra e filoCGIL – le cui conseguenze ci portiamo e ci porteremo addosso per anni.
Può apparire di cattivo gusto ricordarne oggi le contraddizioni, ma a noi non interessano le contraddizioni dell’uomo, quanto la contraddizione tra i punti più elevati del suo magistero e il mondo politico-culturale che egli ha condiviso. Si tratta, come sempre, di usare libri e pensiero di questi grandi studiosi contro la società che li ha prodotti. Riprendere un ragionamento sugli strumenti della crescita culturale collettiva significa mettersi in contraddizione stridente e violenta con la buona scuola; riprendere il filo della tradizione linguistica, storica, letteraria italiana, dare strumenti di lettura (dei testi e della realtà) alle giovani generazioni (per lui, profondo conoscitore e ammiratore di Don Milani) significa aprirgli gli occhi sul vuoto di prospettive future che le alternanze scuola-lavoro o provvedimenti simili, vogliono provare a mascherare. In questo senso e con questa intenzione ci sembra importante ricordare Tullio De Mauro.