Studente portato in psichiatria perché non indossa la mascherina: dalla scuola che educa alla scuola che reprime

Solo una società malata sceglie la repressione.

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Uno studente appena maggiorenne ha subito un trattamento sanitario obbligatorio dopo essersi reso protagonista di una protesta pacifica all'interno della propria classe. Stando alle cronache dei giornali, lo studente si è rifiutato di indossare la mascherina legandosi al proprio banco. È solo uno dei moltissimi segnali di insofferenza e di stanchezza che i nostri studenti manifestano, e sappiamo molto bene tutti che il disagio, il ritiro sociale, l'autolesionismo, i disturbi alimentari stanno aumentando a causa della privazione della socialità.

La scuola, che talvolta è l'unico luogo di socialità per alcuni ragazzi, è divenuta lo spazio evanescente nella didattica a distanza. A questo si aggiungono privazioni limitazioni e restrizioni che hanno reso l'adolescenza e la gioventù dei ragazzi e delle ragazze un periodo della vita ancora più faticoso della normalità e per nulla gioioso. L'episodio, balzato alle cronache e rimpallato sui social media in modo come sempre superficiale, racconta molto di più della tifoseria da stadio dei pro e no mask. Ciò che è accaduto all'interno della scuola di Fano è inaccettabile, perché nessuno studente può essere prelevato e trasportato di peso in un ospedale psichiatrico a diciotto anni.

I nostri studenti devono potersi sentire tutti al sicuro a scuola e, a fronte di un episodio di violazione del protocollo sanitario, un dirigente scolastico che chiama il 118 è un adulto che sceglie la strada della repressione e non dialoga, non spiega, non educa. In mille modi diversi questo evento avrebbe potuto essere scongiurato coinvolgendo la famiglia, parlando con il ragazzo a tu per tu con il distanziamento necessario, magari spostando i compagni in altra aula.

Non c'era un pazzo assassino nella scuola di Fano, ma uno studente che voleva esprimere una posizione e manifestare un profondo disagio e, se è vero che l'esercizio della propria libertà è inscindibile dal rispetto della reciprocità, è anche vero che un ragazzo che pone un problema reale – è più di un anno che viviamo tutti, docenti e studenti, una scuola assurda, perché nulla è stato fatto per risolvere realmente le questioni di sicurezza – deve avere il diritto al confronto, al dialogo, al rapporto educativo.

Lo spazio della scuola non può diventare un luogo di paura, violenza, repressione come è successo a Fano. Occorre uscire dalla modalità passivizzante e incorporea della didattica a distanza o dei modelli misti e al più presto e ricominciare a costruire un dialogo vero e autentico con i nostri giovani, perché se c'è una possibilità che questa società malata da prima dell'arrivo del Covid si salvi, questa possibilità sta nei giovani e si perde completamente nella violenza di un trattamento sanitario obbligatorio.